Silvio Orlando e le sfumature del dolore

Silvio Orlando e le sfumature del dolore

BARBA FOLTA E ANDATURA INDOLENTE PER L’UOMO CHE NASCONDE SE STESSO RACCONTANDO QUARANT’ANNI DI VITA FAMILIARE.
TRATTO DAL ROMANZO DI DOMENICO STARNONE.

Silvio Orlando ha la barba folta dell’uomo indolente che nasconde se stesso, mostrando flemma e abulia di un carattere intellettuale ma insicuro. Così interpreta magistralmente il mistero dell’ignavia nei panni di marito, padre e (a quanto si sa) amante. Nella prova teatrale più matura della sua carriera, nel ruolo più drammatico della sua parabola a volte “seriamente comica”, Orlando impersona Aldo, il protagonista maschile di una saga familiare lunga quarant’anni che Domenico Starnone ha sviluppato nel romanzo del 2014 Lacci, adattando oggi per la scena le proprie pagine. Col risultato di una commedia drammatica che, ora qui ora là, ha un’ammirevole asciuttezza di parole e temi in sintonia con Ginzburg, Duras, Auster, e con una morale ascrivibile a La morte della famiglia di David Cooper dei primi Settanta. Quel che conta è che lo spettacolo (con la regia di Armando Pugliese) ha una tenuta linguistica eccezionale, affidata alle voci, alle memorie e ai punti di vista scissi di una coppia, in più momenti della vita, con intervento dei due figli cresciuti, più il supporto dialettico di un vicino di casa. La prima parte è riservata a una sequenza di sfoghi epistolari della moglie Vanda (una controllata, nitida Vanessa Scalera) che in una penombra bluette ricostruisce le circostanze dell’assenza da casa per quattro anni del coniuge chiamato a insegnare a Roma, dove intreccia una relazione stabile con un’universitaria. Mentre le lettere vengono “dette”, Orlando le ascolta seduto, inerte. Un capolavoro in inquisitoria (lei) e impassibilità (lui). Col segno dei costumi di Silvia Polidori. Non spinto da sentimenti (ha amato solo l’effimera partner), l’uomo difficile tornerà a stare con consorte e figli, condannando sé e gli altri a un grigiore anaffettivo. Nella seconda parte c’è il rientro a casa dalla vacanza di Aldo e Vanda all’incirca settantenni, sorpresi da un interno disastrato (scena di Roberto Crea), messo a soqquadro presumibilmente dai ladri. L’ingresso del coinquilino (un rassicurante Roberto Nobile) permette di ascoltare i resoconti del passato attraverso le opinioni, i ricordi di un Aldo infelice per vocazione. Rievoca la sua viltà all’epoca del tentato suicidio di lei, la cerimonia dei “lacci” con annodamento delle scarpe tramandato al figlio (simbolo del legame che lega al nucleo), riscopre fogli e libri con sottolineature degli anni faticosi (ma non trova più le foto della ragazza nascoste in un cubo blu). E si passa al terzo capitolo, retrocedendo col calendario, assistendo all’entrata in casa dei due figli ormai quarantenni (Maria Laura Rondanini di forte carattere, e Sergio Romano garantista delle abitudini) che culminerà in un disordine reale inflitto all’ordine apparente delle cose, alla normalità, come la chiamerebbe Enzensberger. La sinfonia del dolore, così definita dal regista, è la mancata sincronia di una partitura che non dà scampo, in cui regna l’urlo muto di Orlando.

di Rodolfo Di Giammarco – riproduzione riservata®